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Su Black Lives Matter e le dinamiche organizzative: intervista a Stefano Harney e Fred Moten

A cura di Gabriele Proglio

L’intervista a Stefano Harney e Fred Moten affronta molteplici argomenti relativi al tema dell’organizzazione a partire da Black Lives Matter. Le traiettorie analitiche seguono gli indirizzi suggeriti da questo numero della rivista: l’eredità dei movimenti black, la dimensione internazionale con risonanze in termini di lotte attorno alle genealogie della razza nei diversi contesti postcoloniali, le sfide della nuova congiuntura di guerra. All’interno di questo dialogo, però, è possibile trovare molto di più: gli esiti di una pratica epistemologica già conosciuta da chi ha tenuto in mano Undercommons, volume tradotto in italiano da Tamu. Tutti lavori di Harney e Moten hanno la capacità di adottare sguardi interpretativi rivelatori, di ribaltare interpretazioni così consumate dal divenire invisibili alla critica, di proporre una prospettiva di classe e dal basso che ha progettualità e consapevolezza tanto delle alleanze quanto degli obiettivi. Questo testo conferma la complessità del loro pensiero. Chi ha la bontà di leggerlo potrebbe trovarsi, in alcuni passaggi, nel dubbio di aver compreso bene, con l’esigenza di ritornare su certi passaggi e di prendersi una pausa per pensare – al netto della traduzione, che ha cercato di tradire il meno possibile il significato, ma anche di non pulire, disciplinare e traportare il senso,1. Il consiglio è di rimanere sul testo, non per rimanerne imbrigliati, ma per tracciare linee di fuga e, aggiungerei, pratiche di riorganizzazione.

1.

Partiamo dall’inizio. Lo slogan Black Lives Matter è nato come hashtag nel 2013 ed è diventato una parola d’ordine l’anno successivo, durante le proteste di strada dopo gli omicidi di Michael Brown a Ferguson ed Eric Garner a New York. Come è avvenuta la transizione dai social media a un movimento sociale, non solo in termini di proteste e manifestazioni, ma anche nell’organizzazione stessa della protesta? E in secondo luogo, c’è un’eredità dei movimenti neri precedenti – penso alle soggettività politiche discusse nell’opera di Cedric Robinson – o del Black Power Movement in termini di pratiche e organizzazione politica?

La migliore ricostruzione dell’emergere di BLM nel contesto storico della lotta nera rimane il libro di Keeanga-Yamahtta Taylor, From #BlackLivesMatter to Black Liberation2. Ma possiamo ampliare la sua analisi osservando che “Ferguson” è stata e rimane la protesta di strada più lunga della storia americana. E qual era il carattere di questo movimento di protesta? Era guidato e condotto da persone nere della classe operaia, e come nota Taylor, ciò significava che fin dall’inizio questo movimento a Ferguson si era distaccato dalle classi politiche nere. Aveva quindi un tipo diverso di “leadership” e struttura. Alcuni di quei leader sarebbero poi stati uccisi in altri incidenti—molti nella comunità sostengono che furono assassinati dalla polizia o da informatori. Per comprendere questa leadership e molto di ciò che sarebbe accaduto durante quelle che furono le più grandi proteste della storia americana—le proteste contro l’omicidio di George Floyd e per l’abolizione della polizia—è utile riflettere sul modo in cui Cedric Robinson concepiva la leadership al di fuori delle restrizioni del politico nel pensiero occidentale e dell’individuazione che tale concezione presuppone e sostiene. Il pensiero di Robinson viene sviluppato nell’opera di Erica Edwards3. Questa linea di pensiero è anche ciò che abbiamo cercato di esplorare in Leave Our Mikes Alone4. Questa alternativa parte dalla premessa, come dice Robinson, che “tutti5 sono ugualmente incompleti”, e se il movimento per l’abolizione significa qualcosa, è l’autodifesa di questa incompletezza il vero tema, non solo di fronte alla brutalità poliziesca che cerca di completare i corpi, ma anche agli assalti infiniti del liberalismo che offre di completare “tutti” attraverso la libertà di ognuno.

Dunque, durante le proteste per George Floyd, la polizia e le classi politiche si sono trovate di fronte al più grande movimento di protesta della storia americana, ma anche al movimento più radicale per l’abolizione dai tempi di quello descritto da W.E.B. Du Bois durante e dopo la guerra civile, un momento che lui chiamò General Strike. Era una pratica radicalmente diversa dal movimento “senza richieste” di Occupy, che tuttavia aveva una tattica che reinscriveva tempo e spazio narrativizzati (emplotted) nei corpi separati dell’“occupazione”. Come ci disse una volta Cedric Robinson durante il movimento Occupy: “La mia gente non si siede di fronte alla polizia”. Ferguson non è stata solo il rifiuto della tattica combinata del fascismo – con la riduzione antisociale all’individuazione attraverso l’arresto e l’incarcerazione + l’imposizione su invito del liberismo attraverso la libertà, sebbene dovesse essere anche quello; è stata soprattutto una difesa, perché era la pratica, di una tradizione completamente diversa di evidente pellegrinaggio, di vita lungo il cammino e per le strade, dell’indignazione dislocata, della socialità mobile, del movimento. In quel contesto, Black Lives Matter è stato un modo per cercare di nominare ciò che stava accadendo, affinché la classe media nera e la classe politica nera potessero unirsi alla lotta dalla quale si erano formate come collezioni stabili e stabilizzanti (settled, settling collections) di precedenti esseri singoli. Il liberalismo, in nero e in bianco, può solo cogliere il movimento all’interno del quadro del pensiero politico occidentale – un quadro scelto e quindi necessario. Questa rappresentazione, operante in nome della rappresentazione, è stata proiettata sul movimento dall’esterno, da quelli la cui capacità di unirsi era sempre attenuata dalla loro propensione a nominare.

2.

La seconda domanda riguarda la capacità di BLM di perseguire molteplici strategie politiche: proteste di strada, comunicazione sui social media, costruzione di alleanze con altri gruppi politici africano-americani, mobilitazione di artisti influenti e dialogo con figure come Bernie Sanders. Quali sono le ragioni che permettono a BLM di seguire tutte queste diverse traiettorie politiche?

Il “successo” di BLM risiede nel modo in cui ha contribuito a gestire una contraddizione che il movimento che nomina ha aiutato ad accentuare e approfondire. In questo senso, è simile agli sforzi per l’integrazione negli anni ’50 e dei primi ’60, anch’essi volti a gestire la stessa contraddizione permanente. Il primo movimento per i diritti civili del dopoguerra apparve inizialmente alla classe politica suprematista bianca come un problema della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti venivano costantemente rimproverati sia dai loro nemici della Guerra Fredda sia dalle nazioni decolonizzanti che cercavano di influenzare: non potevano rappresentare il “mondo libero” mentre tenevano popolazioni “separate e disuguali”. L’integrazione graduale e riluttante, di fronte a una lotta costante per la desegregazione contro il ritorno segregazionista – cioè genocida – era il tentativo di gestire questa contraddizione.

Ma il movimento per i diritti civili, che continua contro la sua stessa denominazione e contro l’essere nominato come il movimento per le vite nere, non è mai stato guidato dal desiderio di integrazione, così come non è mai stato definito dalla metafisica della civitas, dei suoi diritti individuali e delle sue vite individuali. La lotta per la desegregazione era una tattica per risocializzare le risorse dentro e contro la macchina da guerra. I suoi fini non erano politici perché non aveva, e non ha, fini. È una difesa della sussistenza contro l’interazione tra guerra e politica. Ad esempio, e di fatto, la maggior parte delle famiglie nere non voleva che i propri figli/e fossero educati insieme ai bambini/e bianchi/e. Volevano le risorse che erano state rubate ai loro figli/e e sapevano che mandarli in quelle scuole nemiche e ostili era l’unico modo per ottenerle. Non c’era grande desiderio di integrazione. Questo è chiaro nelle storie orali. Il fallimento dell’integrazione – che era il piano dei segregazionisti liberali –nel gestire la contraddizione divenne gradualmente chiaro alle classi politiche suprematiste a metà degli anni ’60, quando si diceva che Martin Luther King si stesse “spostando” verso posizioni contro la povertà e la guerra. Ma in realtà, il movimento è sempre stato permeato da posizioni agili e mobili che mettevano in discussione gli Stati Uniti in modi fondamentali. Du Bois fu un obiettore di coscienza nella Prima Guerra Mondiale e in seguito denunciò Truman per aver sganciato la bomba, e Coretta Scott King probabilmente portò il Dottor King alle sue posizioni contro la guerra, avendo lavorato per vietare la bomba e i suoi continui test e miglioramenti. Questa preferenza e preparazione per l’agitazione sarebbe diventata solo più evidente con l’emergere delle Pantere Nere. In altre parole, il movimento nero, il movimento per l’abolizione, ha sempre approfondito e inasprito la contraddizione, come direbbero Cabral e Robinson, di fronte al compromesso e alla repressione suprematista bianca.

BLM è un altro momento nella storia della gestione di questa contraddizione. È stato un modo per cercare di nascondere il fatto lampante che il paese leader del mondo libero aveva di gran lunga la più grande popolazione carceraria del mondo, una popolazione sproporzionatamente black e brown. Allo stesso tempo, come sottolinea Ruth Gilmore, questo complesso industriale carcerario – soprattutto le sue prigioni private – non era il mezzo redditizio di accumulazione di capitale che si diceva fosse, e questa incarcerazione di massa era in realtà costosa e dispendiosa. Così, negli anni 2000, si sviluppò il desiderio tra le classi capitaliste, la classe politica suprematista bianca, gli intellettuali liberali bianchi e la classe politica nera per un miglioramento di questo regime di polizia e punizione. Non volevano la fine dei benefici del regime, che continuavano a usare per gentrificare i quartieri urbani e mantenere una forza lavoro a basso salario, con pochi benefici e poca sindacalizzazione, o il programma depressivo ed estrattivo di occupazione per i piccoli paesi bianchi che forniscono manodopera alle prigioni. Ma non volevano più sperimentare così apertamente le contraddizioni e i costi. Le espressioni di sostegno a BLM nella cultura popolare e corporativa – come gesto retorico che indicava un sentimento quasi vuoto e come appropriazione nominale di un movimento radicale – esprimevano perfettamente anche l’intolleranza per la visibilità di questo regime, che era iniziato negli incendi duraturi di Ferguson, non nel luccichio dei telefoni cellulari. BLM era perfetto per opporsi a casi individuali di brutalità e per indicare forme individuali di integrazione statale e corporativa, ma lo era meno quando si trattava di resistenza critica ai termini dell’ordine.

Copertina del primo numero di Teiko

© Nurphoto / Getty Images

3.

Dal 2014, Black Lives Matter è diventato uno slogan rilevante per movimenti e gruppi politici razzializzati in tutto il mondo – dall’Australia e l’Europa al Brasile, Canada, Giappone e Nuova Zelanda. Molti paesi hanno adottato le pratiche e gli slogan di BLM ("Non riesco a respirare", "Il silenzio bianco è violenza", "Mani in alto, non sparate") per riportare il razzismo sistemico nel dibattito pubblico. Perché BLM è stato così influente e istruttivo per altri movimenti?

Possiamo rispondere a questa domanda con un’altra domanda: «qual è il più lungo movimento anticoloniale continuativo al mondo?». La risposta è il movimento anticoloniale nero negli Stati Uniti. In virtù della profondità delle contraddizioni come colonia interna che non può essere ridotta a una nazione o a una geografia, in virtù del suo posto nel cuore dell’impero più dominante degli ultimi cento anni, e in virtù dell’essere al centro di una nazione di migranti, il movimento anticoloniale negli Stati Uniti ha avuto un’enorme influenza su altre parti del mondo, così come in molti casi i movimenti in altre parti del mondo hanno influenzato fortemente esso. Ad esempio, avresti potuto fare la stessa domanda semplicemente sostituendo frasi tratte dalle storie degli abolizionisti schiavi, degli oppositori delle leggi Lynch all’inizio del XX secolo, dei garveyisti o dei membri delle Black Panther Party for Self-Defense.

Ma, in realtà, c’è un’altra dimensione nella tua domanda, perché tutti i luoghi che menzioni non sono ex colonie o sono decolonizzati da molto tempo. Qual è il rapporto della lotta anticoloniale nera negli Stati Uniti con le nazioni postbelliche e postcoloniali? Questa è una domanda diversa. Da un lato, il rapporto con queste nazioni postcoloniali, specialmente in Africa e nei Caraibi, è intimo, come direbbe Lisa Lowe6. Ad esempio, i college storicamente neri negli Stati Uniti hanno impiegato professori e formato studenti dall’Africa e dai Caraibi per gran parte del XX secolo. E la storia del panafricanismo è fin dall’inizio un movimento organizzativo statunitense, caraibico e africano. Ma si avvertono tensioni sollevarsi nel periodo postcoloniale. Parte di questo fenomeno può essere attribuito a questioni di risorse e del cosiddetto “accesso” percepito come disponibile negli Stati Uniti. Ma parte deriva dalla messa in discussione del postcolonialismo che il movimento anticoloniale implicitamente pone, anzi non può fare a meno di porre. Se la lotta non è finita negli Stati Uniti, allora non è finita neanche in queste nazioni postcoloniali, e questo rappresenta un problema per le classi politiche, intellettuali e artistiche nazionali negli stati postcoloniali che vogliono procedere come se la decolonizzazione fosse davvero avvenuta.

Infine, va aggiunto che gli Stati Uniti non sono soli nel sollevare la domanda scomoda su come la lotta per decolonizzare abbia portato in molti Paesi ad assegnare il potere a una élite postcoloniale che ha demandato il lavoro della decolonizzazione in mani neocoloniali. Ci sono altre lotte anticoloniali di lunga durata, ad esempio in Brasile, dove la brutalità della polizia contro i neri è ancora più alta che negli Stati Uniti, a Porto Rico, Guadalupa e molti altri luoghi dove le lotte anticoloniali sollevano questa domanda scomoda.

4.

Nell’attuale panorama politico statunitense, l’erosione delle libertà – di espressione, di assemblea, di discorso critico – è una realtà quotidiana. Università e ricerca critica sono sotto attacco, così come i migranti e i movimenti LGBTQ+. Inoltre, l’amministrazione Trump sta imponendo un severo controllo linguistico, vietando termini e analisi politiche specifiche – come visto nella censura delle discussioni sul genocidio di Israele contro i palestinesi. Allo stesso tempo, sta prendendo forma un nuovo ordine globale, caratterizzato da militarizzazione e dalla minaccia di una guerra ampliata. Quali sono le principali sfide che BLM – e i movimenti sociali più in generale negli Stati Uniti – affronteranno nei prossimi anni?

La sfida principale è se il movimento nero, il movimento per l’abolizione, continuerà a resistere al mostro a due teste liberalismo/fascismo e all’incorporazione nella guerra per la libertà e contro la sussistenza che è il modo di essere di quel mostro. Ma ci sono buone ragioni per credere che lo farà e per sperare che altri movimenti—non del tutto separati—faranno lo stesso. Lasciamo da parte per un momento Trump e il suo governo. Certo, sono odiosi, incompetenti e crudeli, ma cosa c’è di nuovo? Ricordiamo Nixon e i suoi scagnozzi quando eravamo bambini, e quello era un regime post-diritti civili!

Quali sono i bersagli in questo momento? Le università d’élite, i media corporativi, la costituzione americana, la gestione della diversità e alcune strutture dell’imperialismo statunitense. Beh, quelli sono anche i nostri bersagli. Sì, è per ragioni diverse, ma il punto è non farsi cogliere a difendere i capisaldi dell’istituzionalismo liberale, figuriamoci a difendere lo Stato in generale. Perché, contrariamente a chi dice “almeno sono un baluardo contro il fascismo”, abbiamo visto esattamente il contrario, come nella reazione fascista delle università liberali americane alle proteste pacifiche degli studenti. Queste istituzioni non sono “barriere” contro il fascismo, sono la porta d’accesso al fascismo.

Oltre a questo, è importante ricordare che gli Stati Uniti sono da tempo nel business dell’importazione-deportazione quando si tratta di manodopera. Ecco perché ogni membro del continuum Obama-Trump-Biden ha deportato, e continuerà a deportare, più migranti di qualsiasi presidente prima di loro. È un vecchio business, ma è un business in crescita. Nei primi due decenni del XX secolo, il 40% dei migranti italiani che venivano nelle “strade lastricate d’oro” tornarono a casa. Un piccolo numero di loro fu vittima dei Palmer Raids alla fine di quei due decenni, il primo Red Scare che deportò centinaia di persone senza nulla che somigliasse a un processo equo. Il business dell’America è questo business. Non è personale.

Copertina del primo numero di Teiko

© therideordieproject.com

Note

  1. S. Harney, Fred Moten, Undercommons. Pianificazione fuggivita e studio nero, Napoli, Tamu, 2021, p. 23

  2. Keeanga-Yamahtta Taylor, From #BlackLivesMatter to Black Liberation, Chicago, Haymarket book, 2016

  3. Erica R. Edwards è Professoressa Associata di Inglese alla Rutgers University. Ha curato la riedizione di The Terms of Order. Political Science and the Myth of Leadership (UNC Press, 2016), testo di Cedric J Robinson che affronta il tema della percezione dell’ordine politico occidentale come un’illusione, muovendo una critica che giunge fino a mettere in discussione tanto le forme di leadership quanto le forme dei sistemi politici

  4. L’articolo è stato pubblicato nel volume: S. Harney, F. Moten, All Incomplete, Minor Composition, Colchester/New York/Port Watson, Minor Compositions, 2021, pp. 37-51

  5. Uso il maschile nella traduzione perché l’ordine patriarcale, nel completamento dei corpi, ha una matrice evidentemente maschilista

  6. Lisa Lowe è Samuel Knight Professor di American Studies presso la Yale University. Il testo al quale fanno riferimento Harney e Moten è The intimacies of Four Continents, Duke University Press, Durham, 2015